Credendo di far cosa utile, presentiamo ai nostri lettori l'articolo de "la Repubblica" del 1° dicembre, dal titolo
Il momento della pietas, in cui
Vito Mancuso cerca di articolare una riflessione che non ripeta "aprioristicamente convinzioni vecchie di secoli".
Buona lettura!
Il momento della pietas
di Vito Mancuso
Di fronte a un gesto estremo come quello di Lucio Magri è naturale che negli animi si accendano le passioni. E che da queste sorgano giudizi di approvazione o disapprovazione a seconda delle provenienze culturali. Ogni coscienza responsabile sa però che la complessa situazione del nostro mondo non ha certo bisogno di "kamikaze del pensiero" che ripetono aprioristicamente convinzioni vecchie di secoli.
Ha bisogno piuttosto di analisi pacate e di conoscenza oggettiva perché l'etica non divenga un motivo in più di divisione, ma realizzi la sua vera missione di far vivere in armonia gli esseri umani. E in questa prospettiva si impone alla mente una prima inderogabile condizione: rispetto. Aggiungo che se c'è una situazione in cui hanno senso le parole di Gesù «non giudicare» (Matteo 7,1), è proprio quella nella quale un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Sostengo in altri termini che, di contro a una tradizione secolare che non ha esitato a condannare nel modo più crudo i suicidi, oggi il compito della teologia e della fede responsabile è di sospendere il giudizio, offrire dati, produrre analisi, al fine di generare pietas.
La riflessione umana presenta un dato sorprendente: mentre tutte le grandi tradizioni spirituali dell'umanità, sia religiose sia filosofiche, condannano senza mezzi termini l'omicidio, per il suicidio le cose non sono altrettanto chiare. Nelle religioni rimangono di gran lunga prevalenti le posizioni di condanna, com'è il caso di ebraismo, cristianesimo, islam, e poi di induismo, buddhismo, confucianesimo. Il medesimo orientamento di condanna è maggioritario in filosofia, come mostrano Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger. Tra i filosofi però si danno anche punti di vista che giungono a non condannare, talora anzi a valutare positivamente, il suicidio: così gli epicurei, gli stoici, Montaigne, Nietzsche, Jaspers. Ma l'aspetto veramente sorprendente, soprattutto per un cristiano, è il fatto che la Bibbia non condanni mai, in nessun luogo, il suicidio. L'hanno osservato nel '900 i maggiori teologi contemporanei, tra cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. «Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia», scrive Barth, aggiungendo che si tratta di «un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e servirsene in senso morale!».
Sono una decina i suicidi narrati dalla Bibbia e per nessuno vi è una condanna. Anzi un suicida, per l'esattezza Sansone, viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Non deve stupire quindi che nella Bibbia si ritrovino parole come queste: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (Siracide 30,17). Nel libro di Giobbe si legge di uomini che «aspettano la morte», «che la cercano più di un tesoro», «che gioiscono quando la trovano» (Giobbe 3,21-22), e non per condannare questi uomini, perché chi viene condannato è piuttosto chi sostiene con arroganza e intransigenza la prospettiva contraria come i cosiddetti amici di Giobbe cioè i dogmatici Elifaz, Bildad, Zofar, Elihu.
Certo, tutti sanno che dalla Bibbia emerge soprattutto il messaggio della sensatezza e della sacralità della vita, quello secondo cui la nostra vita è «nelle mani di Dio» (Salmo 16,5), in Dio è «la sorgente della vita» (Salmo 36,10) ed esiste quindi una sorta di rifugio imprendibile dentro cui la nostra energia spirituale più preziosa, detta tradizionalmente anima, non corre pericolo: «Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima» (Matteo 10,28).
Alla luce di questi dati emerge che il compito dei cristiani oggi non è di emettere condanne qualificando negativamente le sofferte scelte di chi si suicida. È piuttosto di vivere la fede nella dimensione spirituale dentro cui l'anima vive al sicuro, anche quando il corpo tradisce. È da questa prospettiva spirituale che io giungo a valutare negativamente il suicidio, e a lottare perché la fiducia verso la vita non venga mai meno, ma si possa assaporare ogni istante l'energia vitale che ci è stata data (se da un Dio personale o dall'impersonalità del processo cosmico, a questo riguardo è una questione secondaria).
Concludendo l'articolo sul compagno di tante battaglie, ieri Valentino Parlato scriveva della necessità di «affrontare l'attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita dall'attuale stato di mortificazione degli esseri umani». Ottimo obiettivo, ma per raggiungerlo io non conosco modo migliore di ospitare fino all'ultimo dentro di sé un sentimento di gratitudine verso la vita in tutte le sue manifestazioni, quel medesimo sentimento che ha portato Violeta Parra a comporre e a cantare la sua bellissima canzone Gracias a la vida.